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Andrea

Galileo

Per anni la mia casa è stata una palestra di ostacoli.
 Ogni gesto era una sfida: aprire le tapparelle, accendere una luce in un’altra stanza, rispondere al citofono, regolare la temperatura… cose semplici per molti, per me erano imprese.

Ricordo una mattina in inverno. Mi ero svegliato prima degli altri. Volevo solo alzare le tapparelle e far entrare un po’ di luce. Ma erano manuali. Pesanti. E io non potevo farlo. Ho aspettato, al buio, che qualcuno si alzasse. Piccole cose che diventano prigioni.

Oppure quella sera in cui la luce è saltata all’improvviso. Nessuno in casa. Solo io e il buio. Ho cercato il telefono, con fatica. Ho avuto paura. Bastava poter dire “accendi la luce” e sarebbe cambiato tutto.

La casa non era fatta per me. Era sorda, rigida, indifferente alle mie esigenze. E questo, giorno dopo giorno, logora. Ti toglie pezzi di autonomia, di fiducia, di libertà.

Poi qualcosa è cambiato. La casa ha iniziato ad ascoltare. A rispondere.
 Ora basta un comando per sollevare una tapparella. Una parola per spegnere le luci. Un tocco sul telefono per vedere chi è al portone.

Non è solo comodità: è dignità.
 Oggi la mia casa non è più una barriera. È diventata alleata, compagna, rifugio.

Elena Squaranti

Galileo

Non accendevo una luce solo per vedere meglio. Lo facevo per sentirmi al sicuro.

Non chiudevo una tapparella per abitudine, ma perché volevo proteggere il mio spazio, la mia intimità.
 Ogni gesto aveva un significato. Una ragione profonda.

Eppure, per anni, questi gesti erano complicati. Faticosi.
 Ogni cosa che facevo in casa sembrava chiedere uno sforzo in più. Non fisico soltanto. Uno sforzo mentale, emotivo, continuo.

Mi ricordo una sera d’estate. Stavo leggendo in salotto, sola. Il cielo minacciava pioggia, ma ero così stanca. Dovevo alzarmi, girare stanza per stanza, chiudere tutte le finestre. Non perché fosse obbligatorio, ma perché volevo evitare quel fastidio il mattino dopo: il pavimento bagnato, l’umido nell’aria. Ci ho pensato per mezz’ora, prima di trovare la forza.

O quando uscivo di casa e la testa si riempiva di domande:
 “Ho spento la luce in bagno?”
 “Le tapparelle sono tutte giù?”
 “Il riscaldamento è ancora acceso?”
 La mente continuava a lavorare anche fuori.
 La casa non era un rifugio, ma un pensiero in più da gestire.

E poi c’era mio padre. Ogni notte si svegliava per abbassare il termostato. Aveva sempre caldo, ma non voleva disturbare. Diceva: “Fa niente, vado piano piano”. E io mi chiedevo: ma perché deve andare piano, se basterebbe un dito? O una voce?

Oggi questi pensieri non ci sono più.
 Non ho bisogno di rincorrere le cose.
 È la casa che mi segue, mi ascolta, mi anticipa.

Ora ogni gesto conserva la sua ragione, ma non costa fatica.
 E questo, per me, è un cambiamento enorme.
 Non è solo praticità.
 È cura.
 È presenza.
 È vivere in uno spazio che mi capisce, prima ancora che io chieda.

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